Un manifesto ermetico nell’arte italiana del Quattrocento

Pinturicchio, 1492- 94, Musei Vaticani, Appartamento Borgia, Sala dei Santi. Soffitto: la storia di Iside e Osiride, morte e resurrezione

C’è un’opera d’arte che può essere considerata il manifesto pittorico di quella complessa costellazione di idee storiche, teologiche e magiche che si affermò in Italia nella seconda metà del Quattrocento e che, prendendo spunto da uno delle sue più provocanti sfumature, può essere definita in modo veloce Ermetismo. Si tratta di un ottagono dipinto da Pinturicchio tra il 1492 e il 1494 e incastonato nel soffitto della Sala dei Santi nell’Appartamento Borgia in Vaticano che rappresenta Iside tra Ermete Trismegisto e Mosè.

Iside tra Ermete Trismegisto e Mosè


L’opera è inserita in un contesto molto importante e articolato, all’interno di un ciclo pittorico complesso, creato da uno dei più completi “pittori umanisti” che agiva come ultimo microfono di un ambiente culturale a sua volta molto articolato e interessante. In questa sede non forniremo un’analisi iconologica dell’intero ciclo di affreschi, ma ci concentreremo sulla singola formella pittorica, in quanto già essa costituisce un primo “geroglifico” che deve essere sciolto in linguaggio moderno per permetterci di affrontarlo con i mezzi del pensiero comune. Pertanto limiteremo ora l’analisi contestuale ad alcuni accenni.

L’Appartamento Borgia prende il nome dal papa che lo fece costruire e affrescare, Alessandro VI. Il celebre e chiacchierato Alessandro Borgia, padre di Cesare e Lucrezia, ricordato dalla storia come libertino impenitente e uomo assetato di potere. Alessandro VI non fu solo questo, ma spesso la storia si concentra su alcuni aspetti degli uomini per poterli dannare ed etichettare, per poter scivolare via ed apostrofare la grande costruzione decorativa dell’Appartamento come la follia di un uomo lussurioso di donne e potere.

              Alessandro VI ritratto da Pinturicchio

Sia chiaro che ad Alessandro le donne piacevano, in particolare una, Giulia Farnese, che è spesso ricordata come “Giulia la bella”, più volte ritratta da artisti proprio per la sua bellezza e per la posizione di potere che le dava la vicinanza con il papa.

Raffaello, 1509-11, ritratto del cardinal Alessandro Farnese

I Farnese erano una famiglia di militari, originaria della zona dei laghi del viterbese, piccoli feudatari che da secoli occupavano un ruolo marginale nelle cronache dello stato pontificio. Uscirono da questo stato di marginalità proprio grazie alla bellezza di Giulia e alle qualità di suo fratello Alessandro, che il Borgia nominò cardinale poco dopo essersi insediato sul soglio pontificio; il popolo romano naturalmente mormorò, storpiò il cognome del neo-porporato in “Fregnese”, ma quell’uomo avrebbe influenzato la politica della chiesa praticamente per un secolo, prima da cardinale, poi come papa Paolo III e persino dopo essere calato nella tomba, attraverso il nipote (figlio di suo figlio Pier Luigi) che si chiamava anche lui Alessandro. La storia della famiglia Farnese fu dunque lunga e gloriosa, destinata ad avere un peso nelle vicende politiche dell’umanità intera e si riassumerà in un altro geroglifico, la grande rocca pentagonale di Caprarola, ma è tempo di tornare all’inizio di questa storia di potere e al giovane Alessandro Farnese.

Intorno al giovane cardinale si era raccolta una cerchia di intellettuali, tra cui spiccavano per particolarità Pomponio Leto, figlio illegittimo di un principe del Regno di Napoli e fondatore di un’Accademia platonica in cui pare si adorassero gli dei della Roma pagana e Flavio Mitridate, un singolare ebreo convertito siciliano che aveva insegnato i principi della Cabala Estatica a Pico della Mirandola, poi era caduto in disgrazia, era stato costretto a fuggire in Germania. Successivamente Mitridate tornò in Italia, dove pendeva su di lui un bando di cattura, infatti giunse a Viterbo e fu imprigionato, ma dal carcere scriveva comodamente al cardinal Farnese che lo mise in contatto, come maestro di lingue, con Giovanni Nanni, detto Annio da Viterbo, storico poligrafo che aveva esplorato a fondo le storie più antiche che era riuscito a trovare al di fuori della “classicità”, aveva studiato attentamente le cronologie esposte da Giuseppe Flavio nel “Contro Apione” e lì aveva colto i riferimenti allo storico egiziano Manetone e a quello caldeo Berosso, e li aveva studiati. Tornò da questo viaggio virtuale con la convinzione della profonda antichità di Viterbo e degli Etruschi, che avrebbero potuto attingere a fonti sapienziali più antiche e “pure” di quelle a disposizione di Roma e soprattutto Annio era riuscito a rintracciare le origini di due famiglie della nobiltà pontificia, i Farnese, che sarebbero stati discendenti di Osiride e i Colonna, che avrebbero avuto come progenitore Ercole Libico.

Queste genealogie sono particolarmente importanti per il nostro scopo, in quanto il programma iconografico della Sala dei Santi tende esplicitamente a nobilitare le origini dei Borgia, facendo coincidere il toro del loro stemma con il bue Api, figlio di Osiride, che sarebbe stato il progenitore della famiglia papale. Naturalmente fu Annio a costruire questo albero genealogico e a suggerire almeno parte del programma iconografico a Pinturicchio, e altrettanto naturalmente il loro incontro fu propiziato dal cardinal Farnese.

Un aspetto molto importante di questo lavoro di genealogia mitologica compiuto da Pinturicchio e Annio è quello di mostrarci come i Farnese e i Borgia discendessero dalla stessa nobile origine e che la loro unione non avrebbe potuto che riportare a Roma l’Età dell’oro, quella in cui Osiride regnava e donava le sue conoscenze agli uomini.

E proprio la conoscenza è al centro dell’ottagono che è al centro di questo contributo. Per affrontare questo tema dobbiamo velocemente accennare però al programma mitologico espresso nella Sala dei Santi. Si tratta dell’adattamento “egiziano” della storia di Zeus e Io già molto utilizzato in epoca medievale e qui ulteriormente complicato per essere utilizzato insieme alle genealogie di Annio.

Zeus si innamorò della splendida fanciulla Io, Hera, gelosa come al suo solito, rapì la donna, la trasformò in una giovenca, la mescolò all’interno di un armento, che pose in Egitto e affidò alle cure del pastore Argo, che non dormiva mai perchè aveva cento occhi e qualcuno aperto riusciva a tenerlo sempre. Qui entra in gioco quello che era allora il più recente frutto delle scappatelle di Zeus, Ermete, che appena nato aveva dato prova di ingegno inventando la lira. Il padre, compiaciuto dall’astuzia del rampollo, gli affidò l’incarico di liberare l’altra sua amante; Ermete riuscì a far addormentare completamente Argo suonandogli una nenia e poi lo uccise, liberando così Io che divenne nota come Iside e sposò Osiride, re d’Egitto, dando vita alla discendenza da cui sarebbero nati i Borgia…

Pinturicchio, Ermete uccide Argo

Nel racconto mitologico, quando io “diventa” Iside ne assume tutte le caratteristiche teologiche di dea della magia e della Sapienza che caratterizzavano questa divinità nel culto egizio prima e greco-romano poi e quindi, quasi come se fosse un lieto fine, la vediamo nell’ottagono di Pinturicchio, al centro della scena, ai suoi lati si trovano, come fossero dei discepoli, Ermete (che riconosciamo perchè è lo stesso personaggio che vediamo negli altri episodi. Il suo volto reca una strana somiglianza con quello di Raffaello, che all’epoca aveva circa 10-12 anni e forse era già in contatto con Pinturicchio, che qualche anno dopo avrebbe seguito a Siena) e un altro personaggio vestito di rosso e dal volto nobile, che sul capo vede spuntare due piccole corna, che lo identificano con Mosè.La prima cosa che notiamo è che il dio Ermete viene subito “fuso” con l’egiziano Ermete Trismegisto, mentra apprende la sua lezione con Iside-Io è molto giovane, ma in fondo secondo il mito era nato da poco, la seconda cosa, abbastanza sorprendente è che lo stesso Mosè è molto giovane, un’iconografia molto rara nel Rinascimento, dove subito pensiamo al maestoso vegliardo michelangiolesco, ma piuttosto diffuso in età tardo antica e medievale (ad esempio nei mosaici di Santa Maria Maggiore del V secolo).

Mosè nei mosaici di Santa Maria Maggiore a Roma, risalenti alla metà del V secolo.

Da un lato può non sembrare strano che il principe dei pittori umanisti, peraltro consigliato dall’archeologo Annio, sia andato a recuperare un’iconografia “classica” e antiquariale, dall’altro non possiamo trascurare che questa scelta iconografica si adatta perfettamente ad un contenuto che l’immagine sembra voler trasmettere. Mosè è in questo caso ancora un allievo della Sapienza eterna incarnata da Io/Iside, discute e disputa, a differenza di Ermete che sembra completamente tacere, ma il futuro profeta è sempre un allievo, al tempo del suo discepolato in Egitto, prima di ricevere la Rivelazione sul Sinai. Filone Alessandrino, il grande interprete della Bibbia, contemporaneo della nascita del Cristianesimo diceva che Mosè era stato un sacerdote egiziano di altissimo grado e santo Stefano, negli Atti degli Apostoli, dice che egli era istruito in tutta la sapienza (magica) degli egiziani. Queste testimonianze ci mostrano “cosa” Pinturicchio abbia voluto rendere in immagini, ma ci sono altre considerazioni da fare, che prendono le mosse dalla presenza di Ermete Trismegisto all’interno del nostro ottagono.

Quando Marsilio Ficino, circa 30 anni prima della realizzazione della nostra opera, tradusse per la prima volta dal greco in latino il Corpus Hermeticum, la raccolta di scritti attribuiti al grande sapiente egiziano Ermete Trismegisto – considerato dal Padre della Chiesa Lattanzio uno dei pagani che aveva in qualche modo compreso le verità rivelate nella tradizione giudaico cristiana – ritenne opportuno far precedere alla sua traduzione un preambolo in cui collocava cronologicamente la figura del Trismegisto e diceva esplicitamente che egli era vissuto in Egitto qualche generazione dopo Mosè.

A Ficino interessava Ermete come uno dei filosofi che avevano costituito quella che lui chiamava Prisca Theologia, che potremmo tradurre come scienza primordiale del divino, una catena iniziatica di figure che culminava con il principe dei filosofi, il grande Platone. Tuttavia per Ficino era importante far notare che Mosè era vissuto prima di quello che lui stesso diceva essere il più antico tra questi filosofi, perchè in questo modo si poteva affermare che la “vera” rivelazione era quella contenuta nella Bibbia (di cui Mosè era la “figura d’autorità), mentre ai pagani egiziani, caldei e greci era stata concessa una capacità razionale di avvicinarsi ai contenuti della rivelazione per poterla poi abbracciare quando sarebbe stata diffusa dopo l’avvento del Messia. Insomma, il testo ficiniano tende prudenzialmente a sfumare l’importanza della sapienza “pagana” rispetto a quella mosaica e lo fa semplicemente dicendo che Mosè era più antico, dunque più vicino alla purezza della Rivelazione di Ermete.

L’immagine che stiamo analizzando contraddice questo assunto con la semplice evidenza pittorica, il Trismegisto è certamente più giovane di Mosè, ma è chiaramente un suo contemporaneo e soprattutto stanno ricevendo lo stesso insegnamento, dalla stessa fonte, annullando le prudenze ficiniane.

C’è un altro testo iconografico, più o meno conntemporaneo a quello di Roma, in cui si esplicita un messaggio molto simile, e si trova a Siena, all’interno dello straordinario pavimento a tarsia marmorea del Duomo (dove lavorano, detto per inciso, anche Pinturicchio e Raffaello). Appena si entra in cattedrale non si può non notare la figura possente e carismatica del Trismegisto, questa volta rappresentato come un vecchio con una lunga barba bianca e caratterizzato da un altissimo copricapo “all’orientale” che sta consegnando un libro ad alcuni personaggi che si inginocchiano con riverenza di fronte a lui. L’immagine è accompagnata da una didascalia in cui il nostro filosofo è esplicitamente definito “contemporaneo di Mosè”, negando dunque non con le immagini ma con le parole le affermazioni di Ficino.

Tuttavia se osserviamo la tarsia senese in un contesto più ampio sembra che si possano trovare degli elementi che fanno tornare in gioco, sotto un’altra specie, la prudenza del filosofo fiorentino. Infatti la particolarità del Duomo senese è proprio il suo pavimento, che costituisce un vero e proprio tappetto di immagini che accolgono il fedele appena entra in chiesa e lo accompagnano materialmente e mentalmente verso il fulcro teologico costituito dal Santissimo. Si tratta di immagini che fanno riferimento al passato, tratte dall’Antico Testamento oppure immagini di Sibille (testimoni pagane di Cristo), oltre allo stesso Trismegisto. Possiamo dunque pensare al grande pavimento senese (la cui realizzazione ha richiesto secoli) come ad un percorso che porti alla verità: in questo percorso la posizione dell’immagine di Ermete Trismegisto è la stessa che troviamo in Ficino, egli è il primo dei prisci theologi, colui che indica la via, pur essendo materialmente il più lontano dalla verità rivelata.

Ultimi anni del XV secolo, Siena, Ermete Trismegisto nel Pavimento del Duomo

Trismegisto sta consegnando ai suoi discepoli un libro, mentre un cartiglio dice “Suscipite litterae et leges Egyptii”, che di solito viene tradotto “prendete, o Egiziani, le lettere e le leggi”, ma potrebbe anche essere tradotto come “Assumete le lettere e le leggi degli Egiziani”, rivolto a tutti indistintamente, quasi ad indicare che assumere i costumi del popolo egiziano, osservare gli insegnamenti di Ermete sia il primo passo di una via che conduce alla Rivelazione personale. Trismegisto ha in mano un libro, la forma fisica, solida, di un insegnamento che però è soprattutto spirituale, in questo senso egli rappresenta il primo passo di un cammino, non tanto per il contenuto specifico della sua rivelazione, ma perchè indica lo studio delle lettere e la disposizione a seguire esteriormente le leggi della società come il primo passo di un cammino molto lungo, è l’accenno all’essenza di un percorso iniziatico.

Fonte: Villeggiare

 

 

 

Author: viaggiandoconlastoria

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